CANONICI REGOLARI DI SANT'ANTONIO DI VIENNE

 

Nuovi documenti sulla presenza dell’ordine di S. Antonio di Vienne nel Mediterraneo Medioevale1 - MARIANGELA RAPETTI

 

 

Copyright 2014 - Dipartimento di Storia, Beni Culturali e Territorio, dell’Università di Cagliari.       

«Studi e ricerche», VII (2014) (pp 95 - 107)

 

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Sul finire dell’XI secolo, presso La Motte St-Didier, nel Delfinato, si formò una fraternità laica sotto l’invocazione di Sant’Antonio abate 2.

Secondo Aymar Falco, primo storico antoniano, le spoglie del santo eremita furono portate nella località dal cavaliere Jocelin 3.

La notizia, riportata in alcuni manoscritti del XIII-XV secolo collazionati dai Bollandisti 4, si trova anche nell’Inventaire des titres de l’abbaye de SaintAntoine, redatto tra il XV e il XVIII secolo ed edito parzialmente nel 1908 da Luc Maillet-Guy, insigne studioso antoniano 5.

 

Le spoglie del santo divennero presto un’attrattiva per i pellegrini.

La prima testimonianza di una chiesa di Saint-Antoine nella località è del 1083, quando il vescovo di Valence, vicario dell’arcivescovo di Vienne, la donò insieme ad altre quattro chiese della regione, con relative pertinenze, al priorato benedettino di Montmajour 6.

 

Le lacune documentali non consentono di avere un quadro completo sui primi tempi di attività della fraternità, che fu fondata dai nobili Gaston e Guérin de la Valloire, padre e figlio, insieme ad alcuni compagni, per assistere i pellegrini che si presentavano alla chiesa.

 

 

La crescita molto rapida della comunità pose i confratelli in contrasto con i benedettini di Montmajour così, nel corso del XIII secolo, la fraternità ottenne l’autonomia: nel 1247 ricevette la regola di Sant’Agostino da Innocenzo IV e nel 1297 fu riconosciuta come congregazione dei canonici regolari di Saint-Antoine-en-Viennois, con bolla di Bonifacio VIII 7

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I canonici antoniani sono noti per la cura del Fuoco di sant’Antonio, malattia urente identificata con l’ergotismo, ovvero un’intossicazione alimentare data dal consumo di pane preparato con farina di segale intaccata dal parassita claviceps purpurea.

Si è parlato di cura attraverso l’alimentazione con pane non contaminato, di applicazione sulle ulcere di uno speciale unguento a base di erbe e grasso di maiale e di saint vinage, un vino fatto filtrare attraverso l’urna contenente le ossa del santo e mescolato a erbe medicinali 8.

 

Dallo studio di queste testimonianze la Foscati dimostra che l’espressione Fuoco di sant’Antonio indicava una cancrena di qualsiasi eziologia, diagnosticata su due precisi segni clinici: il colore nero e la totale insensibilità della pelle 12

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Gli Antoniani ebbero modo di espandersi in tutta Europa grazie all’appoggio pontificio, alla loro fama e alla diffusione del culto di sant’Antonio abate.

 

Conosciuti per la loro attività assistenziale, essi venivano chiamati da vescovi e sovrani per gestire o fondare istituti di assistenza, ragione primaria della loro presenza1 4.

 

Fortemente gerarchizzato, l’intero Ordine rispondeva all’abate generale. Era organizzato in circoscrizioni dette baillivies, corrispondenti al territorio delle precettorie o commanderiae, distinte a loro volta in generali e semplici, le seconde poste sotto il controllo delle prime15.

 

La dispersione delle fonti rende complicata una ricostruzione in chiave cronologia della loro espansione, anche se gradualmente nuovi studi monografici stanno colmando le lacune 16.

 

Alla diffusione seguì, dopo il Cinquecento, un’evidente incapacità nel gestire le case più lontane; il XVII-XVIII secolo fu segnato dalla decadenza fino a quando l’Ordine fu soppresso da Pio VI, nel 1776 17.

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Sono stati gli studiosi di storia antoniana, però, a evidenziare il ruolo della Sardegna nelle vicende dell’Ordine, o perlomeno a segnalare un possibile percorso di indagine. Dai lavori di Adalbert Mischlewski e Italo Ruffino si apprende, infatti, che la Sardegna faceva parte della precettoria generale di Gap (Hautes-Alpes) e, soprattutto, si evince che gli studiosi locali non hanno mai approfondito la ricerca in questo senso 35.

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Gli Antoniani e le fonti ‘sarde’

Per lungo tempo si è parlato dei ‘periodi bui’ della storia sarda, ovvero epoche caratterizzate dalla totale assenza di documenti, soprattutto per quanto riguarda il periodo in cui l’isola era ripartita in quattro regni detti Giudicati (X-XIV secolo).

 

Quest’epoca è stata mitizzata da certe letture storiografiche e romantiche ottocentesche che risentivano di un sentimento ‘anti-ispanico’ e che talvolta accusavano i dominatori dei secoli precedenti di aver distrutto la documentazione.

Sebbene il mito ancora fatichi a scomparire del tutto, gli studi degli ultimi decenni hanno fatto luce sulla documentazione locale 53: le lacune sono reali, ma di gran lunga inferiori a quanto si è creduto 54.

 

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Tuttavia, per quanto la documentazione prettamente sarda parta dall’XI secolo, non è stato possibile rintracciare una fonte locale che citi gli Antoniani prima del XV secolo 55.

 

Le fonti che diremo ‘toscane’ in virtù della loro conservazione, e che riguardano soprattutto il periodo dell’influenza del comune di Pisa sull’isola, ma che si spingono fino al XV secolo, non hanno restituito notizie 56.

Poche fonti pontificie (privilegi, lettere e Rationes Decimarum) forniscono elementi utili alla datazione di alcune chiese sarde intitolate a sant’Antonio ma non citano esplicitamente gli Antoniani 57.

Sono le fonti aragonesi, pervenuteci sia in originale (carte reali) che in copia (registri di Cancelleria), a venirci incontro a partire dagli anni 30 del XIV secolo 58.

A queste si aggiunge lo statuto di Villa di Chiesa (oggi Iglesias), promulgato quando la località era posta sotto il controllo pisano ma emendato e mantenuto dagli Aragonesi quando presero il controllo della città nel 1324, e giunto a noi nella versione ratificata dall’infante Alfonso nel 1327.

 

Al capitolo 75 del II libro del Breve Villae Ecclesiae leggiamo che nel centro abitato era consentita la libera circolazione dei maiali di sant’Antonio. Il riconoscimento dell’animale era dato dal segno distintivo: li porci siano signati et marcati in de la spalla ricta de lo signo di Sancto Antonio, overo che abbia tagliata per traverso la ricchia ricta 59.

 

Il distintivo dei maialini era fondamentale e indicava l’esclusiva proprietà da parte dei canonici, gli unici ai quali, nei comuni italiani medievali, era consentito lasciare gli animali in libertà 60

 

Gli ultimi documenti riguardano gli atti di due cause disputate per il beneficio della chiesa Sant’Antonio extra muros di Sassari e per i conti amministrativi dell’ospedale Sant’Antonio abate di Cagliari.

 

a Cagliari, tra le carte della vertenza, è invece presente la copia di un Breve del cardinale dei Santi Quattro Coronati del 1534 che affida l’amministrazione dell’ospedale alla città di Cagliari, a discapito dei canonici ospitalieri di Vienne 62

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L’ospedale di Sant’Antonio Abate di Cagliari sembra essere l’ultimo preso in gestione dai canonici (1400 ca.) e l’esperienza, abbiamo visto, si concluse nel 1534.

 

Oltre all’allevamento dei maiali, gli Antoniani avevano ovviamente adottato anche in Sardegna la raccolta delle questue, normalmente affidata per procura a un canonico e poi da questo, a sua volta, a uno o più laici residenti sull’isola 67.

I rapporti con il braccio ecclesiastico dovevano essere positivi: troviamo infatti che il vicario dell’Arcivescovo di Cagliari intervenne sollecitando i fedeli alle donazioni 68.

 

Infine, oltre alla riscossione di questue e legati, gli Antoniani cagliaritani dovevano amministrare il patrimonio immobiliare dell’ospedale, e forse questo fu all’origine dei cattivi rapporti con la città di Cagliari, che già nel Trecento si era scontrata con l’Arcivescovo in merito alle rendite dell’ospedale 69

La precettoria Sardiniae era inserita all’interno del sistema costruito ad hoc per il mantenimento della casa madre, lo dimostrano i documenti conservati negli archivi antoniani che sono, si è detto, quelli strettamente connessi alle rendite.

 

La domus sarda era tenuta sia al pagamento della pensione alla precettoria generale di Gap, sia al pagamento della taille ordinaria e straordinaria alla casa madre 70.

Il numero di canonici assegnati dalla casa madre alla domus sive preceptoria Sardiniae con gli statuti di riforma del 1477 è di sei unità: per quanto si facessero assistere nelle diverse attività sia da laici che dagli stessi poveri accolti nelle strutture, non è pensabile che potessero gestire più di tre istituti contemporaneamente 71

Per quanto concerne l’attività di assistenza, abbiamo già escluso il legame tra la presenza antoniana in Sardegna e l’ergotismo. Le fonti ci parlano di ricoveri per i poveri e per i malati in generale, pertanto è a questi che gli ospedalieri antoniani dovrebbero aver prestato la loro assistenza, e non solo a chi era affetto da malattia urente.

 

Sull’isola sono presenti numerose chiese romaniche intitolate a sant’Antonio abate delle quali non abbiamo trovato riscontro alcuno nelle fonti 72, sarebbe opportuno uno studio storico-architettonico più approfondito ma non è il nostro settore.

Ci limitiamo solo a sottolineare che la localizzazione extra muros di alcune di esse fa pensare che siano state costruite con annesso un ospedale, o almeno un ospizio, forse proprio dagli Antoniani, ma la precarietà della loro presenza non avrebbe consentito la creazione di grandi opere architettoniche come è stato ad esempio per Ranverso, Pescia e Pistoia 73.

 

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La presenza degli Antoniani deve avere, però, influito sull’iconografia, in quanto anche nelle opere sarde dell’età moderna sant’Antonio abate viene rappresentato con gli attributi che sono tipici dei canonici, ovvero il maiale, il tau, il bastone e la campanella 74.

 

Da questo sintetico bilancio emergono alcuni spunti di ricerca che sarebbe auspicabile svolgere in futuro: non solo gli studi architettonici e iconografici che, si è detto, non riguardano il nostro campo, ma anche alcuni aspetti che rimangono oscuri, come l’abbandono da parte degli Antoniani della struttura oristanese, certamente legato alle vicende del Giudicato e del successivo Marchesato, ma del quale non abbiamo trovato traccia; o ancora altre ipotesi da confermare, come l’abbandono di Iglesias a seguito dei conflitti tra il giudice di Arborea e il re d’Aragona.

Mariangela Rapetti Dipartimento di Storia, Beni Culturali e Territorio Università degli Studi di Cagliari Via Is Mirrionis, 1 - 09123 Cagliari

E-mail: mariangelarapetti@libero.it

L'Ordine lasciò traccia del suo passaggio attraverso una serie pressoché infinita di ospedali e luoghi di culto dedicati a Sant'Antonio abate distribuiti in tutta Europa.

 

Naturalmente la scelta delle località in cui sorgevano le fondazioni degli Antoniani era determinata dagli scopi a cui esse erano destinate, ovvero l'accoglienza dei viaggiatori e dei pellegrini ed in particolare la cura dei malati.

Non a caso accanto ad ogni fondazione spesso è testimoniata la presenza dell'ospedale.

 

Solitamente questo era un edificio spartano che comprendeva una cucina con la mensa, i dormitori, una cappella e alcuni locali di servizio.

 

Qui all'ospitalità si affiancava la cura delle malattie che colpivano i pellegrini durante il loro viaggio. Con il tempo questa funzione divenne prevalente, tanto che dall'hospitale medievale è derivato l'attuale significato di ospedale.

 

I monaci Antoniani erano facilmente identificabili dall'abito, che consisteva in una tonaca nera con una grande ‘tau’ azzurra, detta la "potenza di S. Antonio”, cucita sulla sinistra del petto.

Questi religiosi vivevano di elemosine e lasciti, spesso causa di abusi e scontri con gli altri Ordini.

 

Lo stesso Dante, in uno degli ultimi canti della "Divina Commedia", prende di mira gli Antoniani, evidentemente molto attivi e spesso insistenti nella richiesta di elemosine e scrive: "di questo ingrassa il porco Sant'Antonio/ e altri assai son ancor più porci, / pagando di moneta senza conio" (Paradiso, canto XXIX, vv.124-126).

 

L'Ordine ebbe nel corso della sua storia, durata fino al 1776, anno della soppressione, una grandissima espansione territoriale i cui limiti erano a nord la Svezia, a est l'Ucraina e a sud forse l'Etiopia, con circa mille fondazioni, delle quali un centinaio distribuite in tutta l'Italia. Non a caso nel XV secolo gli Antoniani assistevano ben oltre 4000 pazienti, in circa 370 ospedali sparsi per l'Europa.

 

La malattia che l'Ordine Antoniano curava in modo specifico era l'herpes zoster detto anche “fuoco di S. Antonio”, molto diffuso tra i poveri a causa della cattiva alimentazione, ed anche l'ergotismo, che era provocato soprattutto dall'ingestione di segale cornuta (veniva così chiamata la segale contaminata da un fungo che sviluppava un alcaloide che provocava l'infezione).

 

Gli Antoniani usavano soprattutto il grasso di maiale come emolliente per le piaghe provocate dal “fuoco di S. Antonio”, per questo nei loro possedimenti allevavano spesso i maiali che simbolicamente venivano raffigurati anche nelle chiese dell'Ordine.

 

I simboli Antoniani

 

 

Il “Tau” era il simbolo degli Antoniani, probabilmente venne scelto perché, oltre a ricordare la croce, rappresentava la stampella usata dagli ammalati e alludeva alla parola "thauma", che in greco antico significa "prodigio". Secondo altre fonti, essendo la lettera tau l'ultima dell'alfabeto ebraico, essa indicava le cose ultime a cui il grande Santo taumaturgo Antonio sempre pensava. Altro simbolo dell'Ordine era la campanella, con la quale gli Antoniani annunciavano il loro arrivo durante gli spostamenti e le questue. Simboli che, col tempo, sono diventati attributi dello stesso Sant'Antonio abate a cui tradizionalmente è associata anche l'immagine del fuoco, sia in virtù del potere taumaturgico del Santo nella cura del fuoco di S. Antonio, ma anche perché secondo la tradizione popolare il santo abate è custode dell'inferno, da dove sottrae le anime dannate, ingannando i diavoli con abili stratagemmi.

 

Fonte